
scopriamo disco ruin con lisa bosi
Vi sveliamo un segreto, siamo davvero molto entusiaste di quest’intervista perchè vi racconteremo di Disco Ruin, un documentario che parla di musica e di clubbing prodotto da Sonne Film e presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma.
Questa volta abbiamo l’opportunità di parlare con Lisa Bosi regista di questo bel progetto (e finalmente una regista donna ndr) assieme a Francesca Zerbetto.
1. Innanzitutto vogliamo ringraziarvi per averci dato la possibilità di farvi qualche domanda su questo interessantissimo lavoro. Lisa, com’è nata l’idea di questo progetto?
L’idea è nata guardando i ruderi delle discoteche presenti in tutta Italia. Abbiamo capito che era arrivato il momento giusto per storicizzare quanto accaduto alle generazioni che si sono inventate nuovi modi di vivere la notte. Da dove si era partiti e dove si è arrivati: queste sono le domande che ci siamo poste lungo il viaggio.
2. Di cosa parla Disco Ruin?
Disco Ruin parla dell’Italia che è esistita mentre tutti dormivano, l’Italia della notte, la prima a cogliere le nuove tendenze musicali e artistiche, in un momento in cui internet non esisteva. Raccontiamo 40 anni di club culture in cui sogni e realtà si mescolano nelle menti di giovani creativi che vivono in anni in cui tutto sembra possibile, una casualità che si trasforma in unicità. Tutto questo fermento porta inevitabilmente con sé una serie di contraddizioni, nelle quali “annegheremo” a fine anni ‘90.
3. Il docufilm risulta molto interessante non solo perchè racconta la storia della club culture italiana (dal Piper al Plastic), ma anche perchè parla dell’estetica architettonica che sta dietro a queste grandi “cattedrali della notte” e della funzione sociale che ha avuto negli anni. Che cosa ha significato per te parlare di architettura “sonora”?
Due tra gli architetti italiani più importanti sono proprio tra le prime voci che sentiamo nel film: Ugo La Pietra e Pietro Derossi.
Per loro, e in generale per gli architetti radicali, l’architettura non era più solo il costruito, ma era anche un gesto, una performance, un’azione. Nessun progetto meglio di una discoteca poteva contenere tutto questo al suo interno, camaleontica come l’arte, la moda e la musica. I loro progetti interiorizzavano proprio queste caratteristiche, esaltando e facilitando allestimenti in continua mutazione. Furono loro a capire per primi che nuovi comportamenti sociali necessitavano di spazi; come dice Derossi “era una risposta ad una domanda”.

Lisa Bosi
4. Per questo film avete intervistato moltissime persone, c’è stata qualche testimonianza che ti ha colpito di più e se sì, perchè?
Devo dire che tutti gli intervistati si sono aperti in maniera particolare, ci hanno portato la loro magia nel film e di questo li ringrazio infinitamente. Un bellissimo momento secondo me è stato poter parlare di Marco Trani (uno dei migliori dj italiani di tutti i tempi che purtroppo non c’è più) insieme a Corrado Rizza e Claudio Coccoluto, suoi “compagni di viaggio” per un certo periodo. Quando poi abbiamo trovato un vecchio VHS dell’Easy Going di Roma dove si vedeva Marco che diceva “io sono tutto”, l’ emozione e la commozione sono state palpabili.
5. La musica e la moda, come è ovvio che sia, sono da sempre intrinsecamente unite. Un binomio in continua evoluzione: la moda attraverso gli occhi, la musica con il ritmo e il suono. Che opinione hai rispetto questa unione?
Sicuramente l’unione è fortissima. E’ come se tutte le musiche avessero bisogno di una propria “divisa”, per riconoscersi più facilmente all’interno di un gruppo.
Nel club questo assume caratteristiche ancora più accentuate. “Avere una presenza di personalità” ci dice Nicola Guiducci, era essenziale per poter accedere in luoghi esclusivi come il Kinki o il suo Plastic. Tutta questa creatività confluiva nella creazione del proprio outfit, che diventava un prolungamento naturale della propria personalità, in anni in cui “l’abito si fa manifesto” (cito un altro intervistato, Lorenzo LSP) non solo di quello che ascolti, ma anche di quello che pensi. Nel club siamo tutti attori protagonisti. Basta indossare un vestito che esprima chi sei veramente e salire sul dancefloor. Le luci si accendono e lo spettacolo inizia.
6. Sappiamo che avete collaborato con lo stilista Massimo Giorgietti, ci vuoi raccontare come avete vissuto quest’esperienza?
Massimo si è appassionato subito al progetto. Lui c’era in quelle notti al Cocoricò che raccontiamo nel film, ed è lì dentro che ha capito chi fosse veramente. Nei suoi lavori è impossibile non leggere i rimandi agli anni ‘90 della riviera romagnola e per noi era importante avere al nostro fianco un brand come il suo. Nelle parti di fiction girate con l’attrice Ondina Quadri e le comparse è stato fondamentale avere i suoi abiti e ricreare la magia di quegli anni proiettandoli nel futuro.
7. Secondo te la club culture si può definire arte?
Assolutamente sì. Smarrimento, entusiasmo di vivere, noia, disperazione, sessualità libera, emarginazione, accettazione… ti potrei elencare cento sentimenti contrastanti che generano l’arte. E non sono forse gli stessi sentimenti che ritroviamo di notte nei club di tutto il mondo? Io penso di sì. Il creare nuovi mondi possibili è sempre stata prerogativa dell’arte come del clubbing.

Disco Ruin
8. Ci racconti com’è stata la tua personale esperienza con le discoteche?
Ho frequentato le discoteche fin da quando ero abbastanza grande da poterci entrare. All’inizio facendo pubbliche relazioni, poi fotografando quello che succedeva all’interno. Quando morì mia madre, ho trovato proprio lì un “altromondo” dove dimenticare per alcune ore la mia terribile sofferenza. Scoprii l’incredibile forza del ballare insieme a mille persone e sentirsi un corpo unico, del ricercare la felicità nel luogo dell’utopia. In realtà il popolo della notte era (ed è) tutto collegato in una unica grande famiglia che vive mentre voi dormite. Sono meglio i sogni o la realtà?
9. Ora domanda di rito per ogni regista che passa su Giù La Testa: quali sono gli artisti/musicisti/registi da cui prendi ispirazione?
Le mie ispirazioni sono molte, anche perché penso che dall’unione di varie arti si generino le cose più interessanti. Quindi almeno ci provo. Rimanendo però in campo cinematografico, ti direi Gaspar Noé. Irriverente, disturbante, ma al tempo stesso irrimediabilmente affascinante. Come la notte. Ti posso citare la fotografa Nan Goldin… poi ovviamente Lars Von Trier, David Lynch… tutti loro sono filtri potentissimi, ti “obbligano” a vedere le cose dal loro punto di vista, destabilizzandoci.
10. Qual è l’ultimo disco che hai ascoltato?
In questi giorni sto ascoltando “Italo Funk” curata da Eli Goldstein (del duo Soul Clap). Mi piace vedere l’interesse che c’è ancora oggi per la scena italiana underground anni ‘90. Sempre attuale.

Disco Ruin
11. Dati i tempi difficili, secondo te la musica troverà il modo di essere ancora uno strumento di aggregazione tra i giovani?
Penso e spero di sì. I modi di fruizione della musica forse dovevano già cambiare e questo virus obbliga tutti noi a fare delle analisi. Riunire di nuovo molte arti all’interno dell’involucro discoteca potrebbe servire, ma non ho ovviamente certezze.
Ti rispondo citando la fine del libro “Discoinferno” scritto da Carlo Antonelli e Fabio De Luca:
“Perche tanto ci sarà sempre, oggi come in uno qualunque dei futuri possibili, qualcuno che a un certo punto accenderà un player, metterà le casse fuori di casa per convertire il garage in una disco, per provare a trasformare – almeno per una notte – il peggiore degli inferni nel più eccitante dei paradisi.
Paradise Garage, appunto.
O, se preferite, DISCOINFERNO”
12. Dove possiamo vedere Disco Ruin?
Dovevamo uscire al cinema, ma purtroppo questo non ci è al momento possibile causa emergenza sanitaria. Aspettiamo la riapertura! Poi ad aprile saremo in onda su Sky Arte, al nostro fianco fin dall’inizio di questa avventura, quando ancora Disco Ruin non esisteva.
13. Un’ultima domanda, forse la più difficile, secondo te è complicato essere una regista donna in Italia in questo preciso momento storico?
Per la mia esperienza personale no. A dirti la verità la tematica è venuta fuori sono nel momento in cui ci siamo resi conto che la maggior parte degli intervistati erano uomini. Secondo me è importante rimanere obbiettivi quando si parla di queste tematiche. Se la storia del clubbing è stata fatta in larga parte da personaggi maschili (molti di loro omosessuali) dobbiamo per forza inserire delle donne? Ce lo siamo chiesto e siamo arrivate alla conclusione che era giusto inserire solo le donne che avremmo ugualmente inserito nel nostro racconto. Non vorrei essere mai una donna considerata solo per fare numero!
In realtà penso che questa differenza di genere sia ampiamente superata. Nel film abbiamo uomini, donne, transessuali, gay, lesbiche… solo a scrivere queste categorie mi sento anacronistica. Oggi, come da sempre nei clubs, il genere assume forme fluide e difficilmente incasellabili.
14. Grazie davvero di cuore per averci dedicato il tuo tempo.
Grazie mille a voi! Approfitto, se me lo permetti, per ringraziare i nostri produttori Sonne Film e K+, le film commission di Emilia Romagna, Veneto e Piemonte che ci hanno sostenuto insieme a MSGM durante la produzione, Sky Arte e radio m2o nostro media partner.

Disco Ruin