
La favola dei due Aladdin
Il nostro viaggio a ritroso nella storia del musical ci porta a un’analisi di due versioni diverse del medesimo film: stiamo parlando di Aladdin nelle sue varianti del 1992 e del 2019, originale e remake, specchio delle sostanziali differenze di sensibilità di rappresentazione intercorse nel corso di quasi trent’anni.
Giunti agli anni Novanta infatti, un decennio insieme a quello precedente in cui i musical cinematografici sono pochi (forse schiacciati dall’offerta di videomusica offerta da Mtv), troviamo però un ancoraggio nella narrazione cantata in uno dei generi che sempre si è accompagnato alla musica nella sua evoluzione storica: l’animazione. I film Disney del decennio infatti presentano tutti momenti musicali e su tutti prenderemo un caso particolare, caratteristico sia per la sua originalità e qualità.
Analizzare un prodotto di animazione che ci permette di affrontare una questione fondamentale nel definire il musical: il musical è un genere a sé o è solamente un modo di raccontare una vicenda? Pochissimi di noi alla domanda “quali musical hai visto nel corso della tua vita?” citerebbero al primo colpo i classici Disney, più spesso associati al genere di animazione. Proviamo allora a rigirare il quesito iniziale: l’animazione è una tecnica di narrazione o è genere cinematografico a sé? Fin dalle Silly Symphonies e passando per Biancaneve e i sette nani, lo studio Disney ha usato canzoni per arricchire i suoi film con melodie diventate immortali nella memoria di diverse generazioni. Pertanto si potrebbe dire che la Casa di Topolino è uno studio cinematografico specializzato in musical. Se infatti rimaniamo fedeli alla definizione di musical data nella prima puntata (https://giulatesta.com/cinerama/rubriche-c/yellow-brick-road/carlo-ugolotti-la-storia-del-musical/2020/), le produzioni Disney sembrano rispettare le norme che categorizzano il genere, musical realizzati con la tecnica dell’animazione. Ma la domanda si pone anche invertendo i termini e applicandola ad altri film: prendiamo Sweeney Todd, un horror con canzoni integrate o un musical dalle tinte orrorifiche? Quando parliamo di musical si tratta quindi di un genere a sé o di una tecnica di narrazione? A questo ulteriore livello di complessità del concetto di genere, non vogliamo dare risposta precisa proprio perché riteniamo che ogni definizione “rigida” non faccia che impoverire le forme con cui il cinema può giocare (al massimo possiamo estendere all’infinito le bambole russe dei “sottogeneri”).
Veniamo ora all’oggetto principale dell’analisi: Aladdin (questo il titolo in Italia del film e non il più “italiano” Aladin; non si tratta infatti di un errore di battitura, la casa produttrice ha volutamente presentato nel mondo il film con la grafia inglese per differenziarsi da probabili versioni “tarocche”) è uno dei più noti film della Rinascita Disney (cioè il ritorno al successo dopo la crisi degli anni Ottanta, cominciato con La Sirenetta e culminato con Il Re Leone) ma è anche un caso di rottura nell’immaginario dei classici dell’animazione. Sulla storia non staremo ad insistere dandola per assodata, mentre preferiremo analizzare proprio in cosa consiste il “terremoto Aladdin”. Dopo un inizio musicale con un deserto illuminato dai colori da Technicolor, il mercante introduce la cornice narrativa del film e già qua si può notare cosa rappresenta la cesura rispetto al passato: vi sono vari riferimenti alla cultura pop difficilmente comprensibili dal pubblico infantile ma invece subito individuabile da un pubblico più maturo. Se prima i film Disney erano ricchi di riferimenti iconografici “alti” presi dalla storia dell’arte, ora si pescano a piene mani dalla cultura cinematografica e televisiva di fine millennio. A portare all’estremo questo gioco delle citazioni post-moderne è lo straordinario personaggio del genio (doppiato in originale Robin Williams, nella versione italiana da Gigi Proietti) che si trasforma in caricature di Arnold Schwarzenegger, Jack Nicholson, Groucho Marx o in altri personaggi disneyani come Pinocchio o trasforma la scimmia Abu in Dumbo. A un certo punto del film fa un cameo addirittura Sebastian de La sirenetta. Anche i numeri musicali travalicano il tempo storico della narrazione favolistica e il brano Friend like me sembra un numero musical di un casinò di Las Vegas, abbandonando il taglio più naturalistico dei musical disneyani precedenti. Il gioco post-moderno e meta-cinematografico raggiungerà l’apice nel finale dove il Genio diventa la luna (ancora la luna come personaggio “obbligato” del musical dopo Moulin Rouge! e La La Land) e poi “sposta” la pellicola facendo confidenze agli spettatori. Altra grande innovazione di questa versione della favola delle Mille e una notte è l’abbandono del tratto dolce e realistico tipico dell’animazione disneyana a favore di uno stile grafico più stilizzato ed esagerato tipico dei cartoni di Chuck Jones (quello di Wile E. Coyote, per intenderci…).
Nell’epoca dei remake live dei Classici (affermazione non del tutto vera perché film come Jungle Book e il nuovo Re Leone rimangono pienamente film di animazione anche se realizzati con una CGI fotorealistica e non disegnati), la nuova versione di Aladdin si presenta come un kolossal fedele all’originale ma allo stesso tempo profondamente iscritto nella nuova sensibilità degli anni. L’incipit è stavolta raccontato dal genio (già “umanizzato” in quanto sceglie che la sua libertà sta non nel vagare per il mondo ma nello stare con le persone amate) che racconta ai figli la sua storia, già da subito c’è una gag meta-cinematografica in cui i bambini gli chiedono di narrare cantando la vicenda ma lui si dichiara troppo stanco per farlo (allusione all’essere “fuori moda” della narrazione musicale). Ma il remake revival passa anche per l’effetto nostalgia delle canzoni e subito il co-protagonista intona il brano di apertura. La nuova versione, adrenalinica e dinamica girata da Guy Ritchie, rispetta il plot della matrice ma ne arricchisce la struttura e i contenuti tematici, soprattutto grazie proprio all’introduzione di nuovi brani musicali: una principessa remissiva non è più accettabile nel 2020 e quindi viene inserita una nuova canzone in cui Jasmine reclama la sua soggettività e la sua interiorità (“la mia voce è soffocata dalla tempesta”) nel pezzo Speechless. Attraverso questo nuovo brano abbiamo uno sguardo sulla personalità della co-protagonista: mentre nella versione precedente costretta al silenzio, ora Jasmin dimostra di avere il coraggio di tenere testa alle guardie e al malvagio Jafar. Anche il villain è adattato alla moderna sensibilità: spariscono le allusioni omofobe che prima caratterizzavano il personaggio (come altri antagonisti disneyani come Scar) e diventa incarnazione di un imperialismo guerrafondaio e patriarcale. Al suo potere corrotto viene opposto nel finale il sultanato guidato proprio da Jasmine, un nuovo regime femminile dominato dalla sua vicinanza al popolo e in cui la donna ha il potere di modificare le leggi precedenti considerate ingiuste. Anche la rappresentazione delle diversità culturali è differente rispetto all’esotismo favolistico della prima versione (ancora per certi versi ferma al Ladro di Badgad del 1924), se il genio (ora interpretato da Will Smith) ora è meno radicato nella cultura multimediale di matrice bianca, viene esplicitato il suo legame con la cultura Black e con le sonorità della musica hip-hop (ma anche con il musical di Bollywood). Il cinema Disney si apre alle influenze culturali del mondo extra-euroamericano con un cast “etnico”, relegando il personaggio bianco all’ancella della principessa e dando una dimensione esplicitamente più islamica all’Argabah della favola (appaiono minareti, inesistenti nella prima versione). Questa nuova versione, oltre a essere un segnale della perenne vitalità della narrazione cantata (anche se spesso soffocata dalla cornice imprecisa del “film di animazione”) mostra come il musical degli anni Duemila debba essere specchio di una rinnovata sensibilità sociale e culturale che aggiorna gli standard di racconto hollywoodiana a una nuova (più o meno ipocrita) rappresentazione della diversità.