
Mersh – Underground (slack!)
In principio erano le Black Candy: se chi legge nel 2003/2004 frequentava il pianeta indie pre-frangetta, magari se le ricorderà. Due ragazze ed un ragazzo modenesi – Alice, Mara ed Andrea-, intenti a suonare malissimo canzoni splendide: un gruppo super punk osannatissimo in un mondo oltre il plasticoso, cosa per il sottoscritto tutt’ora inspiegabile. Poi le Black Candy si sciolgono e -dopo anni di buio- Andrea e Mara ricompaiono negli Operazione San Gennaro: tempo un concerto e rimane solo Andrea, unico comune denominatore tra le varie formazioni fino a quella attuale che, dopo un po’ di concerti, ha il buon gusto di cambiare nome, diventando così Mersh. Fanno concerti, incontrano i ragazzi della Slack! di Gradara che gli stampa un cd, trovano altri concerti: nel frattempo, il mondo entra in quarantena e loro restano a casa con le pive nel sacco, circostanza che mi ha spinto a parlare di questo cd, anche se è uscito da un po’.
Fanno base a Casumaro, come dire la terra di nessuno tra Modena, Ferrara e Bologna, e a differenza delle Black Candy suonano bene, ma il punto non è questo. I Mersh sono fuori dal mondo, lo rivendicano orgogliosamente, e nello spazio di una quarantina di minuti scarsa portano il suono della provincia americana degli anni’80 nella Bassa. Mi rendo conto che detta così possa suonare brutta, quasi stessero cercando di fare un revival, ma penso che ascoltare l’album sia sufficiente per rendersi conto che l’ipotesi è fuori discussione, tale è l’immediatezza delle canzoni e l’urgenza con cui sono suonate.
Sono sicuro che ad un certo punto dica “I play imbezìl ‘cos I like to lose”
Facendo il gioco dei riferimenti si potrebbero nominare i tardi Hüsker Dü, Leatherface, ma anche Replacements, coi quali hanno peraltro in comune uno spiccato gusto per le tamarrate da rocker-col-giubbotto-di-pelle, come ad esempio dimostrano in Loser. Sì, l’attitudine punk indie di metà anni ‘80 c’è tutta, nelle melodie ariose ma sofferte, nella potenza degli arrangiamenti, nel carattere quasi epico di certi pezzi (la title-track, Come Back, la grandiosa Fly The Moon, che sono sicuro che ad un certo punto dica “I play imbezìl ‘cos I like to lose”), ma la voce tirata al limite, il loro approccio stradaiolo e molto, molto legato al rock’n’roll tout court, rimanda – e non in una sola occasione- a degli Stiff Little Fingers epurati dalle influenze reggae. Menzione d’onore per Begging For Love, in cui prendono un canovaccio garage trito e ritrito e vi innestano una pompata di steroidi micidiale, trasformando quella che sarebbe probabilmente l’altrui banalità in un gioiello che brilla di luce propria, e che in un mondo giusto diventerebbe il vero inno della Bassa. Intanto, in attesa che riprendano la loro attività, beh, fategli un favore: ascoltateli, supportateli, perché ne vale la pena.
