
Moulin rouge o del film mosaico e del film vinile
Dopo aver visto nell’ultimo post uno dei musical più rappresentativi degli anni Dieci del secondo millennio, La La Land, ora facciamo un salto indietro di una decina di anni e affrontiamo un film simile ed opposto a quello di Chazelle: Moulin Rounge! di Baz Luhrmann.
La chiave di lettura con cui affronteremo questa produzione del 2001 sarà quella del film mosaico e del film vinile, perché definire così una narrazione filmica che ricalca una tradizione melodrammatica e operistica derivata dall’Ottocento?
Per partire vediamo innanzitutto la relazione che instaura con la nostra precedente tappa nel mondo del musical: mentre La La Land è un film che conserva il modo di raccontare del musical tradizionale e “classico” cambiandone però l’assunto di base (ricordate l’impossibilità di conciliare successo personale e collettivo del finale?), Moulin Rouge! fa esattamente l’opposto, usa un linguaggio formale usando un montaggio rivoluzionario e di rottura pur rimanendo filologicamente fedele alla sua matrice di origine: il melodramma operistico sulla falsariga di La Boheme di Giacomo Puccini e La Traviata di Giuseppe Verdi.
Luhrmann applica all’opera ottocentesca l’operazione che aveva già fatto con il Teatro per eccellenza nel suo adattamento shock: in Romeo+Giulietta di William Shakespeare (1996) aveva trasposto la vicenda degli amanti di Verona in una metropoli multietnica contemporanea dominata dalle gang di strada filmando tutto come un dinamico video-clip di MTV ma conservando il testo elisabettiano intatto in ogni sua forma.
In Moulin Rounge! l’amore tragico tra lo scrittore spiantato e la ballerina destinata alla morte è tale e quale a come potrebbe essere raccontato da uno scrittore parigino di fine Ottocento ma la forma in cui è raccontata rappresenta una vera e propria rivoluzione per una produzione mainstream hollywoodiana. E qui veniamo all’idea del film come mosaico e vinile: Luhrmann mischia immagini e suoni provenienti dalla cultura visiva e sonora dell’Ottocento e del Novecento e usa un montaggio che “scratcha” il film come fosse un vinile manipolato dalle mani abili di un Dj.
Partiamo dal primo punto, il film mosaico: il film usa effetti fotografici che richiamano ai colori “vivi” dell’impressionismo ma a questi unisce il bianco e nero e il virato da film muto del prologo, i colori da musical in technicolor di alcune scene musicali e i cromatismi di Bollywood della rappresentazione teatrale al Moulin Rouge. Anche le realtà storiche sono mischiate in un atemporalità post-moderna: alla Parigi di fine Ottocento si affiancano un 1898 definito “the summer of love” che si ricollega alla Stagione dell’Acquario e l’assenzio diventa una porta per altri mondi come lo era stato l’LDS di Timothy Leary, lo stesso Moulin Rouge sembra ricordare tanto un cabaret della belle époque quanto una discoteca dove si potrebbe muovere senza problemi Tony Manero. A un certo punto gli amanti voleranno in cielo sotto l’occhio guardingo della luna di Mélies che però apparirà sugli schermi solo 4 anni dopo la vicenda raccontata. E quindi Lurhmann dona una nuova universalità e attualità al suo racconto bohemien mischiando spazi temporali e saccheggiando a piene mani varie tradizioni iconografiche e musicali: dalla lirica al videoclip passando per il cinema indiano, dal rock al pop al tango argentino. Non a caso quasi tutte le canzoni del film sono la forma di remix musicale per eccellenza, i medley.
Ottenuto cosi il suo mosaico, ora il regista in sede di post-produzione trasforma il girato in un vinile: come il film mischia diverse tradizioni iconografiche e culturali, il montaggio remixa Moulin Rouge! stesso, accelerando o rallentando le immagini, manipolando scene o parti di scene che vengono anticipate, posticipate e anche ripetute rispetto allo sviluppo cronologico della narrazione. Il plot e il suo finale vengono già svelati dalla voce narrate e da inserti di montaggio nel prologo e tutto il film continuerà a proporre e riproporre flash visivi provenienti da altre sezioni del film. Per questo trovo sia azzeccata la metafora del film vinile in cui il regista e il montatore manipolano e “violentano” continuamente il materiale girato ai fini di una maggiore resa spettacolare: esattamente come i dj hip-hop della serie del regista, The Get down (2016).
Il terzo film della “trilogia del palcoscenico” è quindi una rivoluzione formale del musical ma allo stesso ne è il suo esempio più conservatore e, a suo modo filologico rispetto alla sua matrice narrativa: alla fine la morale del film rimane il più classico dei “the show must go on”.