SOTTO GASOMETRO: LA RESISTENZA CONTINUA DEL VECCHIO SON
Bologna: la descriveva bene Freak Antoni con l’ossimoro “metropoli di provincia”, che racchiude perfettamente lo spirito della città, nel bene e nel male. L’università più antica del mondo, il mito del ’77, lo snodo più grande d’Italia in fatto di trasporti, le doverose periferie una volta proletarie ormai abitate da gente che compra appartamenti pagandoli una fortuna, gentrificandole così dopo aver lamentato gentrificazione per anni da parte altrui. La cultura, ma solo quella delle istituzioni. Prendiamo il quartiere San Donato: troppo poco pittoresco per essere occupato da orde di rivoluzionari per caso, troppo proletario e pieno di stranieri perché possa esserci la cultura (sì, c’è ancora chi ragiona così.). C’è il gasometro dall’altra parte della ferrovia che scruta le orrende architetture del quartiere, alcuni tra gli ultimi avamposti dei tossici, le zone dormitorio della fiera, il famigerato rione Pilastro: insomma, San Donato è bruttino e -anche se sicuramente è molto meno degradato di quanto non si dica- non piace tanto ad un paesone di contadini che si fa il viaggio di Berlino o New York. Però a San Donato accadono le cose, e anche con una sorta di continuità. Tanto per fare degli esempi: nel 1965, nel quartiere, si formavano i Judas, ovvero i primi veri punk di Bologna e -mi piace pensare- di tutta la storia; nel 1979 nascono i Nabat; nel 1980 apre quello che oggi è conosciuto praticamente ovunque come Covo Club. E nel 1998, Steno dei Nabat apre il Vecchio Son.
La prima volta che vi misi piede era l’estate del 2002, avevo 19 anni, ero fresco di patente, di diploma, ero in piena crisi sentimentale e avevo una band garage punk ma, visto che erano tutti in vacanza a casa di dio, trovai il modo di occupare il mio tempo in un gruppo grindcore: erano amici, ma musicalmente ed attitudinalmente -lo sapevo io, lo sapevano loro- con loro non ci stavo a dire un cazzo. Tuttavia con loro condividevo una voglia di libertà pazzesca, di quella che hai quando sei sbarbo e fai una scelta stilistica che ti trasforma in un marziano agli occhi altrui: sono le situazioni che fanno sì che te, cinno col caschetto alla Brian Jones in fissa coi sixties e pure un po’fighetto, stringa amicizia con anarchopunx dalla cresta di 20 cm tenuta su la colla di pesce, con i giubbotti pieni di toppe e poca familiarità con l’elemento liquido. Ecco, quando hai passato anni a cercare una tribù di simili, quando ti ritrovi in uno zibaldone di reietti che probabilmente cercavano la loro tribù come te, quando finalmente capisci che la tua tribù è quella e che ti poteva andare molto peggio (tipo finire in mezzo a gente tutta uguale come soldatini, che in pratica è quello che realmente desideri a quell’età), ti manca solo un posto dove far valere la tua appartenenza. E proprio in quel momento mi imbatto nel Vecchio Son. Al Vecchio Son – o da Steno, come dicevamo tra di noi- ci si andava a fare le prove, giacché c’erano cinque sale con le quali si giocava alla roulette russa, nel senso che a seconda di dove ti veniva assegnato il turno beccavi attrezzatura buona o meno, tanto che ricordo parecchia gente che dopo una sola prova non tornava più, preferendo riparare nelle enormi sale prova dotate di ampli enormi in grado anche di fare il caffè, batterie con undici tom ed impianti voce schermatissimi. Da Steno non c’era niente di tutto questo, ma lì potevi -e puoi tuttora- trovare altro, qualcosa che veramente non ha prezzo: una zona franca. Da sbarbino fighettino mi sono ritrovato lì, tra skinhead, crust, rockabilly e gente normale che veniva a suonare e a farsi una birra nei tavoli dell’atrio, ed immediatamente ho colto la potenza di quel posto, e ho notato come Steno e Marianna avessero capito come sfruttare il potere della musica ed utilizzarlo sul serio come fattore aggregante. Oltre alle sale prove poi, non mancavano concerti e serate, corsi di musica, di danza africana, pure di muay thai, tutto a prezzi popolari. Nel corso degli anni ho visto formarsi band, pianificare dischi e concerti, conosciuto gente e fatto amicizie che mai avrei pensato di fare quando ero un ragazzino sfigato, timoroso e -ribadisco- fighetto fino al midollo. Sì, senza tema di esagerare, posso dire che quel posto mi ha aperto la mente, e, a distanza di 18 anni, continua a farlo incessantemente.
Ecco, lungi da me fare agiografie (santi ed eroi mi sono sempre stati sui maroni), ma se mai c’è stata una palestra di senso civico a Bologna, quella è proprio il Vecchio Son. Secondo me, fare cultura -a maggior ragione in una città che da sempre non manca di cogliere ogni occasione per farne un proprio vanto- non è facile, e ci vogliono buon senso, pazienza, capacità di compromesso, coscienza sociale ed etica del lavoro indefessa: a Marianna e a Steno queste cose non sono mai mancate, almeno da che mi ricordi. Come non sono mancate a spazi sociali -occupati o no- come Atlantide, l’Arci Guernelli (a due passi dal Vecchio Son), il Lazzaretto e anche XM24, tutti destinati ad essere cancellati o, quantomeno, ad avere una vita parecchio difficile. Non voglio parlare di politica perché non è proprio il mio forte e rischio di fare la figura del coglione, ma più passa il tempo, più ho l’impressione che Bologna sia una città-ravanello: rossa fuori, bianchissima dentro, altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento che le istituzioni hanno nei confronti degli spazi socio-culturali che fanno dell’aggregazione, dell’integrazione (e dell’interazione) il proprio punto di forza. Il Vecchio Son non è esente da ciò, purtroppo. Ad esempio, nell’ormai lontano 2010, il comune di Bologna, a seguito della rinnovata assegnazione dei locali all’associazione previo bando, si è ricordato miracolosamente non solo che non aveva mai chiesto l’affitto a Steno e Marianna, ma che voleva anche 12 (dodici) anni di arretrati. Come spiegare ad una istituzione pubblica che i prezzi calmierati sono uno dei punti di forza dell’associazione? Come spiegare che esistono i poveri e che anche loro hanno diritto a suonare e a praticare altre attività, magari senza spendere una follia, dato che magari sono troppo impegnati a cercare di sbarcare il lunario? Non lo so: so solo che fu l’unica raccolta di firme che feci in vita mia, che ruppi le palle a mezzo mondo girando con fogli e penna in ogni dove e che riuscì pure a far firmare la buonanima di mio nonno, all’epoca ottantasettenne. E, fra l’altro, il Vecchio Son manco lo stavo frequentando, per dire quanto certi posti siano capaci di finirti sotto la pelle. Dieci anni dopo si respira sempre un senso di precarietà continuo, e gli ultimi mesi -in cui il mondo intero si è fermato- non hanno certo giovato economicamente: si potrebbe anche dire che ciò conferisce all’associazione un certo fascino piratesco, ok, ma francamente penso che i gestori – coi proventi della quale debbono pure mangiarci e, magari, vivere dignitosamente- inizino ad essere un po’ esausti. E francamente, ogni volta che ci vado e avverto questa cappa, mi sento esausto pure io. Perché, sarà che non esco più tanto, ma mi sovvengono ben pochi posti a Bologna dove posso sentire dal corridoio una soul band che fa le prove, incontrare skinhead giovanissimi e punk rockers bengalesi nella stessa sera, e da semplicissimo appassionato di rock’n’roll, provo un grande sconforto nel sapere che un luogo del genere è costantemente minato da istituzioni e cittadini che non ne vogliono cogliere l’importanza.
Come ho detto poco sopra, questa è solo l’ennesima storia tipicamente petroniana che vede come parte lesa non solo chi fa cultura, ma anche chi ne fruisce. Se mai arrivasse il malaugurato giorno in cui -toccando ferro e maroni- il Vecchio Son dovesse diventare un ricordo, sarebbe purtroppo un film già visto. Ma in questa città c’è chi non ha più voglia di vedere certi film, e non sono pochi: il Vecchio Son ha veramente ancora troppo da offrire alla città e non solo. In vita mia non ho girato molto, ma un po’ di posti li ho visti, e conto sulle dita di una mano quelli in cui puoi imparare veramente qualcosa, tipo ad esempio a stare al mondo: beh, questo è uno di quelli.